I dati più recenti dicono che in media si trascorrono circa 2 ore al giorno a navigare, postare e commentare su Facebook, Twitter, YouTube e altre piattaforme social.

A stare online sono soprattutto bambini e adolescenti.

Le ricadute di questa abitudine su lessico e tempo “sprecato” sono costantemente sotto i nostri occhi (si pensi ad espressioni, ormai entrate nel linguaggio comune, come ad esempio: “Mi hanno taggato in una foto”, o “Ho messo un like al suo status”, ecc.).

Ma quali sono gli effetti dei social sul cervello delle persone, e in particolare dei giovani?

Ricerche in ambito psicologico e scientifico rivelano 5 modi inaspettati e curiosi in cui l’uso del social altera alcuni meccanismi cerebrali.

Eccoli spiegati per punti.

1 / Dipendenza

Il 5-10% degli utenti online è incapace di controllare il tempo trascorso sui social.

Le scansioni cerebrali di queste persone rivelano danni nelle stesse aree colpite nel cervello di chi fa abuso di droghe.

Si nota una degradazione della sostanza bianca nelle regioni che controllano le emozioni, l’attenzione, e i processi decisionali.

La ragione è da ricercare nell’appagamento immediato, con poco sforzo, offerto dai social media, che fa sì che il cervello sviluppi dipendenza dagli stimoli da essi offerti.

2 / Riduzione della capacità di essere multitasking

Si potrebbe pensare che l’uso del web e dei social renda le persone abili a gestire più compiti contemporaneamente.

La prova? Tutti gli utenti, dai bambini agli adulti, sanno tenere nello stesso momento una finestra aperta su Facebook, una su Twitter, e una sulla mail.

In realtà, è stato dimostrato che chi trascorre molto tempo sui social diventa meno abile nel passare da un compito all’altro, più facilmente distraibile, e meno efficiente nell’immagazzinare le informazioni in memoria.

3 / Sindrome da vibrazione fantasma

“Aspetta, mi è vibrato il cellulare! Ah no, me lo sono sognato”.

È una frase che capita di pronunciare, o sentire, sempre più spesso.

Il fenomeno, in aumento, sembrerebbe dovuto al fatto che gli smartphone e i tablet sono diventati appendici di mani e tasche.

Vengono così interpretati come “arti fantasma” dalle aree del cervello che analizzano le sensazioni tattili (come la corteccia somatosensoriale), e finiscono per interferire con le nostre percezioni fisiche.

4 / Rilascio di dopamina

Studi in risonanza magnetica funzionale hanno dimostrato che i centri della ricompensa nel cervello sono più attivi quando, in una conversazione, stiamo parlando di noi, piuttosto che quando ci è chiesto di ascoltare.

Ma se nelle chiacchierate faccia a faccia si parla di sé stessi il 30-40% del tempo, su Facebook è autocentrato l’80% dei post.

Quando un utente scrive di sé stesso, nel suo cervello si libera dopamina, un neurotrasmettitore associato alle sensazioni di benessere.

In pratica, è come se il cervello in qualche modo ricompensasse l’egocentrismo!

5 / Relazioni interpersonali

Forse è dovuto alla tendenza a trascorrere molto tempo in rete, ma le relazioni nate online non sono così effimere come si crede.

Molti dei rapporti che nascono su internet sono persino più solidi di quelli nati offline.

Il motivo è probabilmente da ricercare nel fatto che in queste storie, prima di incontrarsi di persona, si ha modo di conoscere gusti e passioni dell’altro.

Il potere attrattivo dei “dark pattern”

Come mai i social network, e il web in generale, hanno un potere attrattivo così forte nei confronti di giovani e adulti?

La spiegazione è dovuta almeno in parte al fatto che concetti provenienti dai settori dell’economia comportamentale e della psicologia vengono utilizzati in fase di progettazione dei programmi, anche al fine di manipolare le persone.

In questo contesto si inseriscono i “dark pattern”, ossia le scelte adottate nel design delle interfacce di pagine web e app social, che hanno lo scopo di spingere le persone a compiere azioni che altrimenti non avrebbero compiuto, o di nascondere loro informazioni (ad esempio relative ai dati personali), in modo da ottenere occultamente il consenso per trattarle.

Un tale approccio nei confronti di chi naviga in rete, oltre a porre dubbi sul piano etico, si pone in contrasto con i valori europei, e non è in linea con i princìpi e le norme previste dal GDPR.

Dove sono i “dark pattern”?

Ogni utente del web ha certamente avuto una più o meno consapevole esperienza con i “dark pattern”.

Accade frequentemente, ad esempio, che volendo intervenire sulle impostazioni dei cookie di un determinato sito web per limitarne l’uso a quelli strettamente necessari, ci si ritrovi a dover navigare tra una moltitudine di pagine, con l’unico risultato che, data l’impazienza e la fretta dell’utente medio, si è spinti ad accettare un utilizzo anche dei cookie non voluti.

O si pensi ancora all’apparizione di un cookie wall, in cui vengano presentate colorate di verde e di rosso, rispettivamente, le caselle di accettazione e di rifiuto dei cookie.

La normativa per tutelare gli utenti web dai “dark pattern”

Il 24 febbraio 2023, lo European Data Protection Board (EDPB) ha pubblicato le Linee guida 03/2022 per aiutare gli utenti a riconoscere i modelli di progettazione ingannevoli nelle interfacce delle piattaforme social e web.

Rispetto alla prima versione, che era uscita lo scorso anno per la consultazione pubblica, ora, nel formato 2.0, è stato sostituito nel titolo il termine “dark pattern” con “deceptive design patterns”.

Le Linee guida offrono raccomandazioni pratiche su come valutare ed evitare modelli di progettazione ingannevoli nelle interfacce delle piattaforme online che violano la privacy degli utenti, fornendo esempi concreti e best practices per i diversi casi d’uso, con raccomandazioni specifiche per i progettisti web.

Sono stati inoltre aggiunti alcuni chiarimenti (su come ad esempio integrare le Linee guida nel processo di “design thinking”), e un secondo allegato, che fornisce una rapida panoramica di tutte le migliori pratiche.

Le linee guida dei Garanti privacy europei

Secondo le Linee guida dei garanti europei, i modelli di progettazione ingannevole possono essere suddivisi nelle seguenti sei categorie.

1 / Overloading

Significa che gli utenti si trovano di fronte a una grande quantità di richieste, informazioni, opzioni o possibilità, che li spingono a condividere più dati, o a consentire involontariamente al trattamento degli stessi.

2 / Skipping

Si concretizza quando l’interfaccia o il percorso dell’utente è progettato in modo che quest’ultimo dimentichi o non pensi agli aspetti legati alla protezione dei dati.

3 / Stirring

Questa tecnica influisce sulla scelta che gli utenti farebbero avendo come riferimento solo le loro emozioni o utilizzando spinte visive.

4 / Obstructing

In questi casi, la piattaforma ostacola o blocca gli utenti nel loro processo di informazione o gestione dei dati personali, rendendo l’azione complicata o impossibile da compiere.

5 / Fickle

Tale pratica comporta un design dell’interfaccia incoerente e non chiaro, che rende difficile per l’utente navigare tra i diversi strumenti di controllo della protezione dei dati, e comprendere lo scopo del trattamento.

6 / Left in the dark

Si tratta di un’interfaccia progettata in modo da nascondere gli strumenti di controllo della protezione dei dati, o da lasciare gli utenti nell’incertezza su come vengono trattate le loro informazioni personali, e sul tipo di controllo che possono avere su di esse per quanto riguarda l’esercizio dei loro diritti.

L’impegno nel contrasto ai “dark pattern”

Alla luce delle Linee guida 03/2022, le Autorità per la protezione dei dati europee hanno quindi la facoltà di sanzionare l’uso di modelli di progettazione ingannevoli nei casi in cui non rispettino il principio di “trasparenza” e violino le disposizioni del Regolamento Generale sulla Protezione dei Dati (GDPR).

Sia in Italia che nel resto del mondo sono sempre più tempestivi gli interventi delle istituzioni a tutela dei diritti e della privacy delle persone online.

Questo significa che esistono dei rischi seri e tangibili che si corrono stando in rete, e che diventano particolarmente minacciosi quando coinvolgono i minori.

È bene quindi che ragazzi e ragazze ne sappiano sempre di più sull’argomento “privacy online”.

Parlare con loro, sia a scuola che in famiglia, è il primo strumento di autodifesa, e inoltre è un’ottima idea per proporgli un tema coinvolgente e di sicuro interesse!